La recente proposta di cessate il fuoco tra Hamas e Israele avanzata da Donald Trump prevede una tregua di 60 giorni nella Striscia di Gaza, con l’obiettivo di favorire una soluzione negoziata al conflitto e il rilascio degli ostaggi israeliani in mano a Hamas. Secondo quanto dichiarato dall’ex presidente statunitense, Israele avrebbe accettato le condizioni necessarie per finalizzare la tregua, mentre la proposta finale sarà consegnata ad Hamas dai mediatori del Qatar e dell’Egitto. Trump ha presentato l’iniziativa come la sua “migliore e ultima offerta”, avvertendo Hamas che, in caso di rifiuto, la situazione “non potrà che peggiorare”.
La proposta arriva in un contesto di forte pressione internazionale per fermare le ostilità, dopo quasi due anni di guerra che hanno causato oltre 56.000 morti palestinesi e la devastazione di Gaza. Tuttavia, le condizioni poste da Israele — disarmo e smantellamento di Hamas — restano un ostacolo sostanziale, mentre il movimento palestinese chiede garanzie per un cessate il fuoco permanente e il ritiro totale delle truppe israeliane.
Nonostante il rilievo mediatico dell’annuncio, lo scetticismo sulla reale efficacia e sull’autorevolezza internazionale di Trump è diffuso. Da un lato, la sua strategia di presentare la proposta come un ultimatum e la pressione esercitata su entrambe le parti ricordano i metodi già usati in passato, spesso senza risultati duraturi. Dall’altro, la credibilità internazionale di Trump come mediatore è messa in discussione sia da attori regionali sia dalla comunità internazionale: il suo approccio è percepito come sbilanciato sulle posizioni israeliane e poco attento alle richieste palestinesi, mentre i leader arabi e diversi Paesi europei hanno espresso riserve o aperta contrarietà rispetto al piano statunitense. Il vicepremier italiano Antonio Tajani, ad esempio, ha definito la proposta di Trump “un periodo ipotetico dell’irrealtà”, sottolineando come nessun Paese arabo sembri disposto ad accettarla.