Una fondazione sconosciuta, finanziamenti opachi, società militari private americane e il completo aggiramento delle Nazioni Unite e delle ONG umanitarie: il piano israeliano per gestire in autonomia gli aiuti alla Striscia di Gaza sembra crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni.
La Gaza Humanitarian Foundation (GHF), creata in Svizzera nel febbraio 2025 con lo scopo dichiarato di fornire “cibo, acqua, medicinali, ripari e ricostruzione”, doveva essere il perno del nuovo modello promosso da Israele per distribuire gli aiuti umanitari a Gaza, evitando qualsiasi coinvolgimento delle organizzazioni internazionali. Il tutto con un obiettivo preciso: impedire che gli aiuti finissero nelle mani di Hamas.
Ma già prima del debutto operativo, previsto per il 27 maggio, il progetto vacilla. Il direttore esecutivo Jake Wood ha annunciato le sue dimissioni immediate, dichiarando impossibile rispettare “i principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza” alla base dell’azione umanitaria. Parole identiche a quelle usate pochi giorni prima da un portavoce dell’ONU per giustificare il rifiuto a partecipare al piano israeliano.
Le critiche sono arrivate anche da Trial International, ONG svizzera che ha chiesto alle autorità federali di verificare la legittimità della GHF, denunciando il rischio di “militarizzazione degli aiuti” attraverso l’impiego di contractor americani. Due le aziende selezionate per la distribuzione: Safe Reach Solutions, fondata da un ex agente CIA, e UG Solutions, guidata da un ex membro delle forze speciali USA.
La struttura giuridica stessa è traballante: registrata a Ginevra da tre fondatori – un armeno residente a Londra, un americano del Texas e un avvocato svizzero – la fondazione ha perso l’unico membro domiciliato in Svizzera, in violazione della normativa elvetica. La sua sede legale è stata abbandonata. Secondo il New York Times, GHF risulta registrata anche nello Stato del Delaware.
Un comunicato della fondazione ha dichiarato di aver ricevuto oltre 100 milioni di dollari da un anonimo Stato europeo occidentale. Ma crescono i sospetti che dietro la sigla GHF si nasconda direttamente il governo israeliano. È stato lo stesso Yair Lapid, leader dell’opposizione alla Knesset, a chiedersi se non siano stati i servizi segreti israeliani, su ordine del premier Netanyahu e del ministro delle Finanze Smotrich, a orchestrare il trasferimento di fondi pubblici all’estero per farli rientrare sotto forma di aiuti.
Al momento, le poche ONG che avevano accettato di collaborare con GHF si stanno ritirando. Delle cinque inizialmente annunciate, secondo fonti attendibili ne resterebbero solo due.
Il piano rischia così di trasformarsi in un clamoroso boomerang: nato per dimostrare che Israele può gestire l’aiuto umanitario “in modo sicuro e indipendente”, sta invece evidenziando opacità, improvvisazione e mancanza di trasparenza. E mentre si consuma questa crisi istituzionale e logistica, a Gaza si continua a morire di bombe e di fame.