Israele è attraversata da un’ondata di tensione interna che va ben oltre il conflitto con Hamas. Al centro di questa crisi silenziosa c’è lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, e la sua crescente riluttanza a indagare sui collaboratori del primo ministro Benjamin Netanyahu. Due inchieste, ormai note come “Qatargate” e “BibiLeaks”, coinvolgono figure vicine al premier: la prima riguarda attività sospette di lobbying per il Qatar, la seconda presunte fughe di documenti riservati alla stampa. Ma dentro lo Shin Bet cresce il timore: se indagano, rischiano di diventare bersaglio della macchina del fango dell’estrema destra.
Fonti interne raccontano di agenti convocati dai superiori e rassicurati che le loro identità saranno protette, anche in caso di testimonianza nei tribunali. Ma la fiducia vacilla. L’anno scorso, la deputata del Likud Tally Gotliv ha rivelato pubblicamente l’identità del compagno di una nota attivista antigovernativa, anch’egli membro dello Shin Bet. Il messaggio è chiaro: nessuno è davvero al sicuro dall’esposizione mediatica, neanche gli uomini dei servizi.
Il capo dello Shin Bet, Ronen Bar — che si appresta a lasciare l’incarico — ha ammesso che mai, in oltre trent’anni di carriera, aveva visto i suoi agenti così intimoriti all’idea di fare il proprio lavoro. Il motivo? Il timore che le loro famiglie diventino vittime della propaganda violenta e vendicativa dei sostenitori più accesi di Netanyahu, in nome della sua sopravvivenza politica.
Netanyahu, infatti, è deciso a rimanere in sella: vuole evitare elezioni anticipate, respingere la proposta di una commissione d’inchiesta sugli errori del 7 ottobre 2023 e difendersi dalle accuse di corruzione che da anni lo inseguono nei tribunali. Ma il clima che ha alimentato attorno al processo è tossico. E chi testimonia contro di lui, come la ex assistente Hadas Klein, diventa automaticamente un bersaglio.
Klein, testimone chiave nel “Caso 1000” sui regali di lusso ricevuti dai Netanyahu, è stata travolta da insulti e minacce — anche sessuali — su social come X (ex Twitter). In alcuni casi si è arrivati a proporre la pubblicazione del suo numero di telefono. Tutto questo senza che le forze dell’ordine prendessero provvedimenti efficaci. Persino dopo un’inchiesta giornalistica che rivelava le pressioni di Sara Netanyahu contro Klein, la polizia non ha interrogato la moglie del premier. Dal Ministero della Giustizia sono trapelate voci secondo cui “non ci sarebbero gli estremi per un’indagine”.
Ma i segnali di intimidazione non riguardano solo Klein. Procura, investigatori, testimoni: tutti sono sotto attacco. E i giudici? Secondo molti osservatori, sono fin troppo indulgenti con Netanyahu. Dove con altri imputati le aule si sarebbero trasformate in tribunali d’acciaio, con il premier sembrano diventate sale d’ascolto.
Anche Ehud Olmert, ex primo ministro condannato nel caso Holyland, denunciò la presunta parzialità della Procura. Ma fu zittito dal giudice David Rosen con fermezza. Oggi, invece, Netanyahu può parlare liberamente in aula, attaccando lo “Stato profondo” e riducendo l’intero procedimento a un complotto.
Così, mentre il Paese affronta crisi geopolitiche e interne, cresce il sospetto che la giustizia sia ostaggio della politica. E lo Shin Bet, simbolo della sicurezza nazionale, si ritrova incastrato tra il dovere d’indagare e il rischio di essere travolto dalla propaganda di chi governa. Una resa silenziosa che pesa più di mille proclami.